È Simon Boccanegra ad aprire il Festival del Bicentenario. Manifestazione, purtroppo, che a Parma non ha portato altro che guai. Il primo tentativo di mettere in opera una rassegna interamente dedicata a Giuseppe Verdi risale al 1990. A quel tempo l'obiettivo fu soprattutto culturale e non solo turistico – si eseguì Il trovatore accanto alla sua versione francese Le trouvère, con tanto di convegno dedicato, e l'allora sconosciuta Alzira – ma l'esperimento si esaurì su se stesso. Ci si riprovò un decennio più tardi in occasione del Centenario del 2001, con un Festival della durata di un anno intero, ma il Teatro Regio ne uscì completamente spremuto. Non appena si ripristinarono le finanze, ci si riprovò con una rassegna che nient'altro fu che una coda di stagione, fino ad arrivare alla sua radicale trasformazione nel 2007, con l'ideazione di un vero Festival in termini di calendarizzazione, ma con la totale perdita della chiave culturale a favore del solo scopo turistico ed economico. Un fatto del tutto lecito, soprattutto se l'intento è quello di promuovere la città attraverso il teatro, riempiendo alberghi, ristoranti, musei e attività commerciali. Ma resta il fatto che le finanze teatrali di un capoluogo di provincia – per lo meno questo vale nello Stato italiano – non sono sufficienti per gestire due stagioni all'anno. Ora la nuova dirigenza sta tentando di risollevare le sorti del regio palcoscenico, ma nuovamente sta usando la parola Festival con ciò che è solo una breve e concentrata stagione, poiché le produzioni non sono concomitanti e alternate, né le date in cartellone superano il numero di cinque, ovvero quelle che generalmente sono messe a disposizione dei cittadini e dei visitatori limitrofi. Non è certo la presenza di una TV giapponese a fare la differenza. Una rondine non fa primavera. Forse è arrivato il momento che Parma decida se recuperare la reputazione del Regio tornando alle eccellenti stagioni che lo hanno contraddistinto e reso famoso in tutto il mondo fino al 2000, oppure se fare un Festival Verdi che sia apprezzato a livello internazionale, ma facendo solo quello, per farlo bene, come del resto accade a Pesaro.
Fortunatamente con questo Simon Boccanegra torna l'alta qualità. Lo spettacolo interamente firmato da Hugo De Ana, realizzato nel 2004, è certamente uno dei migliori in circolazione, sotto ogni punto di vista, sia per il pregio dell'allestimento e dei costumi, sia per la regia, tanto nei movimenti e nella gestualità dei protagonisti, quanto nelle azioni e nelle posizioni delle masse.Â
Lo stesso entusiasmo è da condividersi per la direzione di Jader Bignamini, perché sa ricercare i colori e le sfumature di cui è intrisa questa partitura, senza eccedere nel patetico o nell'eroico, ma stando sempre in equilibrio sullo sviluppo dei sentimenti umani tanto cari a Verdi. Conduce con armonia e purezza di suono la brava Filarmonica Arturo Toscanini, confrontandosi anche con qualche momento di vera passione, come all'ingresso della plebe nella scena del consiglio.
Roberto Frontali è un Simone forse poco drammatico, ma sicuramente molto verdiano. La sua voce si sposa alla perfezione con questo ruolo – come con quasi tutti i ruoli baritonali del Cigno di Busseto – e regala al pubblico una vera lezione di canto, a partire dall'intonazione perfetta, fino all'eleganza del fraseggio e alla potenza dello squillo.
Carmela Remigio non possiede la tipica vocalità verdiana e la partitura le risulta un poco pesante; ciò lo si sente soprattutto verso il basso, dove tende a svuotarsi. Ma sa indubbiamente portare i suoi pregi in primo piano, a partire dalla raffinatezza della linea di canto, molto probabilmente mutuata dal repertorio barocco e mozartiano. Va inoltre notato che l'aria di sortita di Amelia è resa in maniera eccellente: morbidissima nel passaggio, pregevole nei colori, aggraziata nel fraseggio.
Diego Torre è un Adorno più che corretto. Dotato di voce piena, generosa e squillante, pare particolarmente adatto al repertorio verdiano e pucciniano, ma necessita di affinamento nell'uso degli accenti e della parola, dei cromatismi e delle sfumature, dei piani e delle mezze voci.
Giacomo Prestia è un Fiesco di prim'ordine, con un fraseggio densamente espressivo, una traboccante tavolozza di colori e note gravi particolarmente corpose e possenti. Qualche acuto non risulta propriamente corretto, ma si tratta di poco rispetto all'intera esibizione.
Marco Caria è un Paolo molto efficace, dotato di bella voce brillante, timbrata e sa farsi notare sia nei passaggi cantabili, sia in quelli più drammatici. Lo stesso vale per Antonio Corianò, che veste i panni di un luminoso e sonoro capitano dei balestrieri.
Adeguati Seung Pil Choi e Lorelay Solis nelle vesta di Pietro e dell'ancella.
Eccellente, come sempre, il Coro del Teatro Regio diretto da Martino Faggiani.
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