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Recensione opera Norma di Vincenzo Bellini al Teatro Massimo di Palermo

Gigi Scalici , 24/06/2014

In breve:
Palermo - Recensione dell'opera lirica Norma di Vincenzo Bellini in scena la Teatro Massimo di Palermo il 22 giugno 2014. Non convince e lascia perplessi la ripresa dell'allestimento dell'Opera di Stoccarda del 2002 a firma di Jossi Wieler e Sergio Morabito, con scene e costumi di Anna Viebrock. Meglio la rappresentazione musicale con la direzione di Will Humburg.


Non è ancora chiaro se oggi il vasto pubblico dell'opera lirica, composto da appassionati di ogni età che accettano di buon grado le innovazioni registiche, non sia sufficientemente adatto a certe trasposizioni epocali, oppure se sia esattamente il contrario, cioè teatralmente sin troppo maturo per condividere talune forzature registiche.

Assente nel capoluogo siciliano dal 2007, quest'ultima Norma è alquanto trasgressiva teatralmente ed assolutamente estranea dai testi del libretto di Felice Romani ed ancor più dalla tragedia “Norma ou l'infanticide” di Alexandre Soumet da cui è stata tratta, fatta eccezione per qualche simbologia.

Sinteticamente, tutto sa di verismo, la sacra foresta dei Druidi nei due atti a scena fissa è rappresentata da una fatiscente chiesa francese, nel contesto della seconda guerra mondiale, in cui i partigiani e le compagne capeggiati da Oroveso (capo dei Druidi), con i relativi costumi, accessori ed armi dell'epoca, si organizzano per ribellarsi non ai romani, bensì agli invasori tedeschi.
Il tempio d'Irminsul sarebbe rappresentato da un ufficiale mummificato posto su una barella e sul quale crescerebbe il vischio, reciso dalla falce dorata di Norma nel rito della fecondità. La parte vicina al proscenio, separata dal resto della struttura da una ringhiera, spesso scavalcata dagli artisti, rappresenta la zona antistante dell'abitazione/sacrestia di Norma (figlia di Oroveso) in cui si svolge prevalentemente l'azione.

Quanto sopra (influenzando probabilmente anche gli artisti) non può che distogliere lo spettatore meno esperto dalla concreta resa musicale e dagli effetti teatrali, come a partire ad esempio dalla celebre “Casta diva”, il sacro rito di Norma, in cui proprio della luna non c'è alcuna traccia, ad eccezione forse dei bagliori delle luci artificiali.

Norma, ovviamente in abiti dimessi della prima metà del novecento e con veste sacerdotale indossata per le funzioni religiose, è affidata al soprano ungherese in carriera Csilla Boross, dotata di un bel timbro naturale di lirico spinto-drammatico di vasta estensione e di considerevole ed imponente volume che non teme le sonorità più intense dell'orchestra.
La sua Norma è pienamente di carattere, nell'assoluto conflitto di passioni con se stessa e con gli altri sui quali predomina per l'intensa personalità, evidenziando tutta la drammaticità del ruolo affidatole. La brava artista sembra però più adatta ai ruoli più spinti e drammatici, come ad esempio quelli verdiani (Abigaille, Lady Macbeth, etc).

E' più efficace infatti nelle parti più vigorose, soprattutto nei momenti d'ira e di veemenza in cui i suoi acuti sono sin troppo intensi e forzati ed è meno convincente invece dove si richiede un fraseggio più accurato ed un'espressione belliniana belcantistica e nobile nello stesso tempo, come nelle agilità di “Casta diva”, in cui è comunque applaudita a scena aperta.

Le vesti borghesi dell'infido Pollione (invasore tedesco, non proconsole romano) sono affidate all'esperto artista venezuelano Aquiles Machado, indubbiamente un tenore dal bel timbro lirico ricco di armonici e dall'ottimo squillo generoso.
La sua formazione (allievo di Alfredo Kraus) è belcantistica e di lirico puro. E' più a suo agio nel registro centrale nelle parti più liriche di “Meco all'altar di Venere ”, ma nell'area acuta emergono ancora alcune difficoltà soprattutto nel crescendo che tende a forzare, a svantaggio della corretta intonazione.
Ottimo convincente interprete comunque nel contesto dei duetti con Norma ed Adalgisa, per ricchezza di colori ed intensità di fraseggio, limitatamente alle condizioni registiche.

Un unanime consenso emerge per l'Adalgisa della giovane mezzoprano di Bergamo Annalisa Stroppa che si afferma nel ruolo per sicurezza, qualità d'espressione e fraseggio in “Sola, furtiva al tempio”, con un possente timbro caldo e ricco di armonici oltre che di una facile estensione verso gli acuti sopranili richiesti dalla partitura (il ruolo è spesso affidato anche ai soprani lirici). Eccellente come i colleghi, nell'armonioso terzetto al termine del primo atto e nei duetti con Norma e Pollione.

Anche il giovane basso Marco Spotti/Oroveso (capo della resistenza) si caratterizza per l'imponente e voluminoso timbro e per la ricchezza degli armonici in “A del Tebro al gioco indegno” nel dissuadere i compagni che contro i tedeschi si armano dei moschetti, nascosti in una buca celata da una botola in prossimità dell'altare, ma come i colleghi è sin troppo condizionato dall'inusitato contesto ambientale.

Dignitosi il soprano Patrizia Gentile ed il tenore Francesco Parrino, nelle rispettive piccole parti di Clotilde e di Flavio.

Sin dalla celebre ouverture dell'opera, la sapiente bacchetta dell'applaudito Maestro Will Humburg, particolarmente coinvolto nell'attenta direzione con accuratissimi e partecipi gesti, si distingue per la precisione degli stacchi dei tempi stretti, la ricchezza dei colori e per le intense dinamiche, con particolare attenzione alla strumentazione degli archi e dei fiati. Salvo qualche naturale imperfezione, l'equilibrio tra l'orchestra, i solisti e l'eccellente Coro diretto da Piero Monti è perfetto, grazie alle poderosi voci di questa edizione che non temono le sonorità più intense, come nella stretta del prestigioso concertato finale.

Probabilmente, però anche la direzione orchestrale si adegua alla moderna lettura di questa particolare Norma, a discapito della nobiltà e della raffinatezza di alcune bellissime pagine della partitura del celebre trentenne compositore catanese. La presenza sul palco della banda musicale e la relativa esecuzione è sin troppo rilevante e talvolta si ha la sensazione di assistere ad un melodramma di particolare impronta eroica, spinta, drammatica degli anni successivi (Verdi,Wagner,etc.), anche se in effetti il sommo capolavoro belliniano rappresenta una svolta, un'innovazione nella tradizione melodrammatica di quell'epoca, che ha instradato gli altri colleghi.

Il pubblico del turno domenicale, molto attento, ha gradito soprattutto e parzialmente l'aspetto musicale e solistico, riservandosi le contestazioni sulla lettura registica soprattutto al termine del primo atto e dello spettacolo, evitando chiassose proteste come è avvenuto alla prima rappresentazione, pur condividendone evidentemente l'inopportuna trasposizione storica che spesso ha suscitato delle ilarità a causa di talune forzature.

 
 
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