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Recensione opera lirica Le comte Ory di Gioachino Rossini al Teatro alla Scala di Milano

William Fratti, 11/07/2014

In breve:
Milano - Recensione dell'opera lirica Le comte Ory di Gioachino Rossini in scena al Teatro Alla Scala di Milano il 7 luglio 2014.


Il capolavoro rossiniano mancava da molti anni dal palcoscenico del Piermarini e ci si aspettava da Laurent Pelly un allestimento maestoso ed elegante.
Invece, all'apertura del sipario, le attese speranzose si tramutano in desolazione: il paesaggio col castello e il romitaggio lasciano il posto alla presunta palestra di una scuola di paese, adibita a sala riunioni con sedie e palco disposti sul campo da gioco.
Non è certamente bello da vedere, né si trovano in scena le finezze della musica di Rossini o del canto francese.
Ma già col procedere dell'introduzione si inizia a notare una certa filologia nella trasposizione di Pelly e soprattutto diviene chiaramente evidente la mano di un regista che sa fare davvero il suo lavoro.

Nulla è lasciato al caso: gestualità ed espressività dei personaggi, ingressi e uscite, scene e controscene, tutto è fluido e preciso, non solo secondo una logica drammaturgica, ma anche in rapporto alla musica. In poche parole questo spettacolo può non appagare la vista, può non piacere, può sembrare spoglio, può essere un po' volgarotto, ma indubbiamente funziona ed è estremamente efficace.

Un po' meno precisa è la bacchetta di Donato Renzetti, che pare non stare in punta, che sembra strascicare i suoni, anche se non è detto che sia tutta colpa sua.

Il risultato musicale è abbastanza discreto, ma da Rossini al Teatro alla Scala ci si aspetta il filo a piombo, mentre la sensazione è che ognuno – orchestra, coro, cantanti – faccia un po' quel che vuole, indipendentemente – a causa o a discapito, non è ben chiaro – della direzione.

Juan Diego Florez, affetto da una forte indisposizione, è sostituito da Colin Lee nel temibile ruolo di Ory, che affronta con disinvoltura, senza traccia di emozione nella voce, con suoni limpidi e puliti e acuti ben sostenuti. Qualche difficoltà la si sente nelle note più basse, nonché nel parlato, dove perde potenza e proiezione e tende a scomparire. È comunque chiaro che il tenore sudafricano sia dotato di una certa musicalità che si spera venga coltivata a favore di una serie di miglioramenti nelle zone più deboli.

Aleksandra Kurzak, nei panni della contessa, dimostra di essere una bravissima interprete, simpatica, accattivante e molto opportuna nella recitazione. La voce ha un bel colore, è ben timbrata ed intonata nel canto spianato, mentre le agilità, soprattutto quando salgono all'acuto, non sono sempre precise e accurate.

José Maria Lo Monaco è un Isolier poco significativo, si nota una certa mancanza di spessore e il canto poco strutturato è quasi sempre stiracchiato nelle note alte.

Stéphane Degout è un bravo Raimbaud, ma piacerebbe di più se la voce fosse più brillante.

Roberto Tagliavini affronta con disinvoltura il ruolo del gouverneur, prodigandosi in un'esecuzione ben riuscita della difficile “Veiller sans cesse” e soprattutto dell'ardua cabaletta “Cette aventure”. Forse non possiede un'elasticità particolarmente spiccata, ma risolve tecnicamente ogni passaggio, approfittando anche di un colore abbastanza scuro che, accanto alla sua facilità di salita all'acuto, gli rende onore su tutta la tessitura.

Molto brava la Ragonde di Marina De Liso.

Efficaci Rosanna Savoia, Massimiliano Difino e Michele Mauro nelle parti di Alice, Gérard e Mainfroy.

Buona la prova del Coro del Teatro alla Scala diretto da Bruno Casoni.

 
 
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