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Recensione opera lirica Les contes d'Hoffmann di J. Offenbach al Teatro Municipale di Piacenza

William Fratti, 15/01/2015

In breve:
Piacenza - Recensione dell'opera lirica Les contes d'Hoffmann di Jacques Hoffenbach in scena il 9 gennaio 2015 al Teatro Municipale di Piacenza


Per la prima volta nel corso della sua lunga e tormentata storia, la celebre opéra-fantastique di Jacques Offenbach approda sul palcoscenico del Teatro Municipale di Piacenza, in uno spettacolo essenziale, pulito e filologico; senza alcun coup de théâtre o idea originale – molti sono i richiami a rinomate regie storiche – ma non è una colpa, poiché è mai noioso e mantiene viva l'attenzione per tutta la durata del lungo avvicendarsi dei vari racconti.

Il lavoro di Nicola Berloffa è migliorato rispetto alla precedente La vedova allegra, soprattutto nei movimenti, negli ingressi e nelle uscite delle masse artistiche, che in questa produzione appaiono ben più fluidi. Anche l'uso di alcune controscene ha contribuito a rendere maggior animazione. Restano da migliorare alcune piccolezze – come i pezzi nudi della bambola che escono dal sacco di Coppélius, mentre potrebbero essere vestiti con gli abiti di Olympia; od un eccessivo ed inopportuno utilizzo del grande caminetto come porta di accesso, conveniente a La Muse/Nicklausse, forse ai personaggi demoniaci, ma poi troppo ed inutilmente inflazionato – ciononostante è da notarsi un certo impegno complessivo, che merita gli applausi ricevuti.

Piacevolissima, anche se proveniente da un'idea già usata in passato, la scenografia pressoché unica nella taverna di Luther disegnata da Fabio Cherstich, che si veste con gli attributi dei luoghi di Olympia, Antonia e Giulietta, proprio come se Hoffmann stesse sognando i propri racconti, addormentato in quella stanza. Efficacissimi, pur anch'essi non troppo originali, i costumi di Valeria Donata Bettella. Buono il progetto luci di Luca Antolini.

Giorgio Berrugi esegue il mastodontico ruolo di Hoffmann in maniera decisamente corretta. Forse non sarà un interprete di riferimento e non avrà una voce né uno slancio in grado di appassionare i cuori dei tenormelomani, ma canta con musicalità ed intonazione tutta l'opera – si registra qualche piccolo intoppo solo nella canzone di Kleinzach – gli acuti – pur non svettanti – sono sempre limpidi ed in avanti e va notato che in questo temibile personaggio risulta migliore di colleghi ben più blasonati. Molto ben riuscito è il terzetto con Crespel e Miracle.

Simone Alberghini veste i panni dei quattro personaggi demoniaci senza alcun difetto vocale, con buon accento ed efficacia interpretativa, pur non essendo particolarmente coinvolgente, anche se convincente.

Bravo il giovane tenore Florian Cafiero nel quadruplice ruolo di Andrès, Spalanzani, Frantz e Pitichinaccio, dotato di voce piena e sonora, ben centrata nella parte del padre di Olympia, forse un poco affaticata nell'aria del domestico del padre di AntoniaJour et nuit” ma sicuramente un cantante da riascoltare e soprattutto da tenere d'occhio.

Altrettanto valente è il debuttante Olivier Dejan, che sa farsi notare sia in Maître Luther sia in Crespel, in possesso di vocalità intensa e tonante. Anch'egli è cantante da seguire e riudire.

Molto efficaci anche Oreste Cosimo nei panni di Nathanaël e Cochenille, nonché Aline Martin in quelli della madre di Antonia.

Adeguati anche Josef Skarka nei ruoli di Hermann e Peter Schlemil e i solisti del coro Andrea Bianchi, Alessio Verna e Ruggiero Lopopolo.

Riguardo ai personaggi femminili, innanzitutto è da notarsi che i quattro ruoli principali scritti per una sola interprete sono stati qui eseguiti da due diverse soprano. La tradizione, che per oltre un secolo ha portato in palcoscenico Les contes d'Hoffmann in una decina di versioni più o meno lontane dall'originale voluto dal compositore, ha sempre indotto a proporre l'opera con artiste differenti, soffermandosi su caratteristiche ad effetto strappapplausi piuttosto che autentiche. Negli anni Settanta la prima a ripristinare la giusta leggerezza per Antonia e Giulietta è stata Joan Sutherland, pur non essendo ancora stato riscoperto l'autografo dell'atto quarto. In tempi più o meno recenti, anche grazie agli ultimi ritrovamenti, altri tentativi sono stati fatti da altre soprano, tra cui Patrizia Ciofi e Silvia Dalla Benetta, dimostrando chiaramente che non sussiste differenza tra le quattro diverse vocalità. Per oltre un secolo si è stati abituati ad un'Olympia stracolma di sovracuti, ad un'Antonia puramente lirica e ad una Giulietta ancor più corposa, ma una lettura attenta dello spartito autografo, se si escludono le variazioni, porta a pensare ad una sola interprete. E questa è chiaramente un'occasione persa, poiché lo si poteva fare anche a Piacenza.

Al Municipale a vestire i panni della bambola è stata Elisa Cenni, restando nel solco della tradizione del soprano leggero di coloratura e sembra prendere spunto dalla storica interpretazione di Natalie Dessay. La voce è morbida, l'intonazione è buona, gli acuti sono ben tenuti, i sovracuti non sempre limpidi ma talvolta striduli, talaltra appena accennati. Nel complesso la resa è molto buona, ma volendo essere precisi, non tutti gli staccati previsti dalla partitura sono eseguiti correttamente, ma risultano un po' troppo legati.

Invece Maria Katzarava, pur possedendo una voce molto importante e naturalmente bella, è cantante inelegante e grossolana, dedita all'urlo che tanto piace al pubblico medio, che applaude non appena sente i decibel andare oltre un certo livello, indipendentemente dall'intonazione, dall'appoggio e dalla qualità dal suono. L'aria di AntoniaElle a fui, la tourterelle” dovrebbe essere delicata e raffinata, mentre è volgare nel canto e nel gesto, così come tutto l'atto.

Ancor peggiore è Giulietta, che invece di saper ammaliare e sedurre con eleganza e ricercatezza, grida note pasticciate, soprattutto nel rondò – che in pochi conoscono e probabilmente non ne capiscono il pastrocchio – e si sbraccia come uno scaricatore di porto. A nulla serve la strillante uscita di Stella. Il giovane soprano messicano ha un curriculum di tutto rispetto, quindi si potrebbe pensare ad un'indisposizione, o più maliziosamente al forte potere del suo agente.

Violette Polchi è più soprano corto che non mezzosoprano e la sua interpretazione de La Muse e Nicklausse è abbastanza limitata, soprattutto nei fiati troppo corti e nelle note basse ben poco salde.

Concludendo con Christopher Franklin, bravo direttore che sa reggere i tempi e soprattutto le masse, anche nelle pagine più difficili della partitura, ha come unico neo quello di non lasciarsi mai troppo andare nei caratteri maestosi che invece sarebbero richiesti in alcuni passaggi: lo stile di Offenbach è inconfutabile, intriso della raffinatezza francese in ogni singola nota, sa però arrivare con somma eleganza all'estremo della grandeur parisienne. Da notare che forse tale imperfezione è causata anche dall'Orchestra Regionale dell'Emilia Romagna, che si prodiga in un suono sì pulito, ma un poco svogliato, povero di trilli e di ritmo scintillante.

Molto buona la prova del Coro del Teatro Municipale di Piacenza, diretto da Corrado Casati.

Infine va segnalato che è stata diffusa l'informazione che l'opera sarebbe stata eseguita, per la prima volta in Italia, sulla base dell'ultima edizione critica curata da Kaye e Keck, i quali hanno potuto accedere ad una quantità di musica e di documenti originali mai resi pubblici in precedenza. Purtroppo tale versione è stata solo la base di partenza della produzione, poiché sono state mantenute diverse pagine apocrife o mutuate da altri lavori, come vuole la tradizione. Inoltre, dei nuovi ritrovamenti, sono stati proposti solo alcuni pezzi, restando molto lontani da una versione integrale. Franklin ha voluto rimarcare che “la nostra produzione, però cerca di rimanere nei parametri di uno spettacolo di tre ore per un pubblico di oggi. Per motivi di eccessiva quantità di musica abbiamo dovuto in un certo senso snellire la partitura per potervela proporre per la prima volta qui al Municipale”.

La vera ragione di questa scelta non è molto chiara. Direzione svogliata? Pubblico svogliato? Probabilmente no. Probabilmente, come già frequentemente accaduto in altri teatri negli ultimi anni, mancanza di risorse economiche sufficienti a coprire le impossibili richieste sindacali di alcuni lavoratori dello spettacolo. E chi continua a pagarne il prezzo è la cultura.

 
 
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