| Tra tutte quelle scritte, ove il buon Wagner schierò il registro dell'heldentenor, 
c'era (e ci dovrebbe essere ancora tutt'oggi) anche leggendario Parsifal. Gli anni però passano e l'uomo ha continuato ad evolversi non solo nelle sue 
caratteristiche fisiche e celebrali ma a quanto pare anche di “volontà 
scritturale”; consegnando sempre più l'intera stecca organizzativa nelle mani di 
chi, a dispetto alle designazioni originali, ha iniziato a batterla da 
anarchico. 
 Non è un caso infatti, se il bellissimo Klaus Florian Vogt, oltre a 
gettare le basi del suo distinto aspetto da belloccio da fare invidia al 
rampollo Ridge di casa Forester in quella di Beautiful, si è anche 
dilettato nel provare a dissolvere gli atroci dolori di Amfortas, nelle 
vesti appunto del mistico “puro folle” wagneriano. Che tale volesse dimostrare sia scenicamente che vocalmente una forma 
“mistico-sacrale”è assolutamente fuori discussione, pur lasciando un gigantesco 
punto interrogativo nella mente degli ”innamorati” del compositore di Lipsia. I 
suoi gravi saltellavano quà e là alla disperata ricerca di una sonorità decente, 
come piena emergenza era per i suoi acuti deboli, aperti e dispersi nell'aria 
chissà dove. Non ci sono parole nel considerare poi la sua voce quando veniva 
letteralmente inghiottita dalle “alte maree orchestrali”e quando tale glie lo 
permetteva, solo il medium auspicava (innatamente) un certo senso al suono.
 Tutt' altro che heldentenor.
  Chi poi ha pensato al suo costume, ha ben ideato una giacca trapuntata ¾ 
giallo chiarissimo da operatore osa e un paio di simpaticissimi mocassini 
marrone chiaro ai piedi a “mo” di turista cinese a spasso per via Caracciolo che 
non vede l'ora di cogliere il primo raggio di sole utile per fotografare il 
Vesuvio. Di presenza scenica obiettivamente adatta e con un voce pulita e abbastanza a 
tema, si è invece presentato l'imponente basso Kristin Sigmundsson nelle 
vesti di Gurnemanz. Sua grande caratteristica si è rivelata la sua decisa 
espressività drammatica.
  Sotto i dardi della sua vocalità non in ottima forma e della sua bassa 
statura rispetto agli altri colossi sul palco, è stata il mezzo soprano Lioba 
Braun che ha inscenato quella che soggettivamente doveva essere la 
bellissima ed eroica Kundry. Dal punto di vista scenico si è leggermente 
riscattata nel secondo atto diviso quasi per intero al 50 % con il protagonista, 
ma nello scorrere delle pagine della sua partitura, la voce l'ha quasi 
completamente abbandonata.
 Note positive a riguardo del basso Albert Dohmen che ha interpretato 
un ottimo Amfortas. Dolorante al punto giusto come da libretto, voce 
calda e cristallina nei gravi. Anche il mago Klingsor e il vecchio Titurel hanno trovato dei 
validissimi interpreti rispettivamente nei bassi Pavlo Hunka e Markus 
Hollop; riguardevoli le loro esecuzioni sotto tutti i punti di vista al pari 
di Gurnemanz.  Atmosfera erotica di gran gusto profusa da parte delle “seduttrici di 
Klingsor”, quindi Pia-Marie Nilsson, Sylvia Weiss, Annely 
Peebo, Anna Korondi, Alexandra Wilson, Stefanie Iranyi; 
poco rilevanti ma comunque di buon aiuto anche i comprimari Annely Peebo,
Ritterbusch, Cornelia Entling, Martin Mühle, Nicola 
Pamio, István Kovács, Alexander Kaimbacher, le cui voci, di 
consistenza volumetrica rasente quasi lo zero assoluto, venivano praticamente 
divorate dalle scalate strumentali.  Buona la partecipazione del coro del maestro Marco Ozbic, come tale è 
risultata la direzione: un Asher Fisch delicato come una preghiera nei 
momenti più “mistici”, deciso nelle situazioni più irruenti. Mai volgare o 
eccessivo, ma sempre attento e di grande aiuto per chi ne aveva “significativo 
bisogno”. Direzione scenica ad opera di Federico Tiezzi la cui salvezza si è alla 
fine risolta nell'esperienza dei soli artisti “di razza” che hanno preso parte 
allo spettacolo.
 Il sig. Giulio Paolini ha avuto già modo di entrare nel teatro S. 
Carlo in vesti di innovatore della scena di taluni opere ideate secondo una 
sua particolare “progettistica”. Anche se non propriamente di gusto “surreale-tedesco”, 
lo stile di Paolini è accademico e nessuno si meraviglierebbe mai se intendesse 
esempio nella mente di chi cerca di inventarsi qualcosa di nuovo.  Giovanna Buzzi invece ha ideato i costumi, i quali restano totalmente 
privi di commento se si pensa a quello di Parsifal, che oltre ad una 
decente armatura indossata nel terzo atto, sembrava per il resto dell'opera un 
modello di moda notte Valentino o giù di lì.
 Complesso visivo ripreso qua e là Luigi Saccomandi che ha curato le 
luci in modo diligente e dalla coppa del graal che donava alla scena una 
particolare varietà di luci e colori grazie ad un suggestivo effetto 
catarifrangente. Nessuno obietterà mai la bellezza di questo spettacolo sotto un profilo di 
colori, musica e impegno degli interpreti. Ma al di fuori del rincuorante let motiv eseguito dagli orchestrali e del 
sorriso di Fisch, Wagner è risultato un qualche cosa completamente 
cancellato dalla storia dell'uomo.
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