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Recensione opera Semiramide di Gioachino Rossini all'Opera di Firenza

William Fratti, 06/10/2016

In breve:
Firenze - Recensione dell'opera lirica Semiramide di Gioachino Rossini in scena al Teatro dell'Opera di Firenze il 27 settembre 2016.


Fare Rossini con la R maiuscola al di fuori di Pesaro è un progetto assai ambizioso in termini di stile e di intenzione.

Negli ultimi trentasette anni il ROF e l'Accademia Rossiniana diretta da Alberto Zedda si sono imposti come punto di riferimento per lo studio dell'interpretazione del compositore pesarese e devono essere presi come base architettonica su cui costruire ogni tipo di esecuzione. Il Rossini serio soprattutto è affare assai arduo e audace e l'intento, l'accento, l'espressione di ciascuno degli artisti coinvolti vale certamente non poco.

In questa felice occasione, all'inaugurazione della Stagione 2016/2017 dell'Opera di Firenze, ci si avvale innanzitutto di uno degli ultimi spettacoli di un vero regista rossiniano, Luca Ronconi, che negli anni della Rossini Renaissance è stato in grado di condurre alla portata del pubblico moderno dei titoli altrimenti difficilmente rappresentabili.

Questa sua Semiramide non ha alcuna pretesa, non è mastodontica, non è spettacolare, non è eccessivamente tradizionale né contemporanea. Impiega pochi elementi scenici al fine di lasciare spazio alla parola, a costo di sembrare fin troppo scarna.

In questo lavoro della maturità il compositore è voluto ritornare sulle proprie orme, verso schemi musicali che ormai stava abbandonando, per incontrare i gusti di un pubblico diverso e senza saperlo ha aperto le porte ai grandi drammi dei suoi successori - si pensi a Norma e Nabucco - prediligendo modelli ormai consolidati a discapito di alcune novità che da qualche tempo stava sperimentando. E la regia di Ronconi sembra proprio seguire questo filo conduttore: un ritorno al classico per rappresentare il moderno.

Eccellente è il lavoro di adattamento operato da Marina Bianchi e Marie Lambert, sulle suggestive scene di Tiziano Santi e con i piacevoli costumi di Emanuel Ungaro sapientemente ripresi e riassestati sui nuovi interpreti da Maddalena Marciano, con le belle luci di AJ Weissbard qui riviste da Pamela Cantatore.

Il lavoro di concertazione svolto da Antony Walker, che non può essere certamente considerato un rossiniano puro, né la sua lettura del dramma potrà mai passare negli annali, è buono in termini di accento, soprattutto nel colore, anche se talvolta manca di nervo, ma sulla lunga partitura riesce a dare un significato univoco, omogeneo e compatto.

Lo segue molto bene l'eccellente Orchestra del Maggio Musicale Fiorentino - fatta eccezione per qualche piccolo neo dei corni, ma con certi passaggi dei violini davvero superbi - come pure il superlativo Coro diretto dal bravo Lorenzo Fratini.

Jessica Pratt, il vero interesse di questa occasione, veste i panni di una buona Semiramide, la cui tessitura è giustamente arricchita di variazioni verso l'alto per renderla più consona alle sue corde. La bravissima cantante forse manca un poco di autorevolezza e di accento drammatico, ma sa cantare, sa quello che fa col suo strumento e rende una regina babilonese, almeno dal punto di vista vocale, davvero piacevole. Il tempo renderà la sua interpretazione indubbiamente più adeguata e vitale.

Forse il personaggio maggiormente reso più interessante è l'Arsace di Silvia Tro Santafé, nelle cui vene scorrono maggiormente il sangue di Bellini e Donizetti piuttosto che quello di Rossini, ma possiede una musicalità, una capacità d'accento e soprattutto un fraseggio davvero invidiabili. Inoltre la sua voce corre anche nell'immensa sala sorda dell'Opera di Firenze, facendo notare ancor meglio la sua precisione, il suo vigore, oltreché il suo bel timbro.

Ottimo il colore dell'Assur di Mirco Palazzi, che inizialmente appare debole e con poco nervo, oltreché calante, ma subito dopo l'introduzione dimostra la pasta di cui è fatto, che trova forza e compimento nella bella scena della pazzia prima del finale secondo.

Davvero buona la resa dell'Idreno di Juan Francisco Gatell, che si prodiga nell'introduzione, ma soprattutto nelle due terribili arie a lui affidate, con estrema perizia. Anche per lui certi passaggi sono perfettibili, ma nel complesso la sua prova è sinceramente di altissimo livello.

Molto buono anche l'Oroe di Oleg Tsybulko, in netto miglioramento rispetto al Ciro di Pesaro.

Efficaci l'Azema di Tonia Langella e il Mitrane di Andrea Giovannini. Ottimo in acuto, impreciso e traballante in basso, il Nino di Chanyoung Lee.

Applausi e ovazioni, da un teatro vicino al tutto esaurito, per tutti gli interpreti al termine della lunga rappresentazione, che giustamente è stata proposta nell'edizione critica curata da Philip Gossett e Alberto Zedda. Scontenti gli irriducibili affezionati alle grandi dive del passato.

 
 
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