L'unica opera scritta da Giuseppe Verdi a favore della causa
risorgimentale torna sul palcoscenico del Maggio dopo quasi sessant'anni,
pertanto l'attesa e le aspettative sono piuttosto alte.
Purtroppo già dalla sinfonia la direzione di Renato Palumbo
appare un poco priva del carattere dinamico degli anni di galera, dunque spesso
risulta monotono. Non v'è dubbio che in alcune pagine il bravo Maestro ricerchi
il cesello, ma in una tragedia lirica come questa un eccessivo approfondimento
di finezze rischia di far ottenere risultati opposti, ovvero una certa
gentilezza musicale ove invero ci si aspetterebbe maggiormente una vivacità più
ribelle e battagliera.
Giuseppe Gipali è il tenore corretto di sempre e il suo
Arrigo fa ciò che deve in termini di belcanto, dall'intonazione al
fraseggio, dall'uso della parola allo squillo pulito, purtroppo senza mai
spiccare, rendendo una prova apprezzabile.
Meno riuscita è la Lida di Vittoria Yeo, dalla
quale si attendevano prodezze. Sfortunatamente la soprano è spesso calante,
manca di colori e fraseggi risultando piatta, qualche acuto è gracidino,
probabilmente non è in piena forma e ci si augura di riudirla in performance
migliori, come già in precedenza.
Buona la prova di Giuseppe Altomare nei panni di Rolando,
pur non brillando di una particolare luminosità vocale, mentre il fraseggio è
molto ben impostato, di ottima eloquenza.
La voce da Grande Inquisitore di Marco Spotti è
quasi sprecata per la breve parte, seppur fondamentale, di Federico
Babarossa e il finale secondo, con “Il destino d'Italia son io!” è
indiscutibilmente la parte meglio riuscita di tutta l'esecuzione. Sufficienti
le parti di contorno, capitanate dalla Imelda di Giada Frasconi e il Marcovaldo
di Min Kim, con il Primo Console di Egidio Massimo Naccarato, il Secondo Console
di Nicolò Ayroldi, il Podestà di Adriano Gramigni, lo scudiero e
araldo di Rim Park.
Adeguata la prova del Coro del Maggio Musicale Fiorentino
preparato da Lorenzo Fratini.
Lo spettacolo di Marco Tullio Giordana, con scene e
luci di Gianni Carluccio e costumi di
Francesca Livia Sartori ed Elisabetta Antico, ne ha del già visto e del
polveroso, ma soprattutto si percepisce una certa noia scaturita da un lavoro di
regia pressoché inesistente. Le masse sono quasi sempre solo piazzate, i solisti
sono spesso immobili, le controscene sono inesistenti, l'attrezzeria è molto più
che minimalista, ingressi e uscite non sempre seguono la musica lasciando il
vuoto in scena diverse volte.
L'apertura del sipario avviene sulla mappa storica della Milano assediata da
Federico I nel 1158, ma per gran parte dell'introduzione musicale nessuno entra
in scena.
Il coro vestito nelle tonalità del bianco, le luci e gli sfondi si amalgamano
in un unicum senza spessore e senza profondità. Fin dal principio, come poi in
tutto il resto dello spettacolo, è evidente che le indicazioni del libretto non
sono seguite, contrariamente a quanto dichiarato da Giordana nelle note di
regia.
Durante tutta la rappresentazione gli spazi non sono mai definiti nella loro
tridimensionalità, archi poggiati su pilastri sospesi, alberi volanti, colonne e
veroni immaginari, mancanza di oggetti in scena, nessuna interazione con lo
spazio, nessuna percezione del Genuis loci, del dove, interni o esterni. Lo
spazio non si articola e gli attori sono costretti ad una staticità
sconcertante.
l luogo rappresentato mediante i mattoni è l'unico ambiente dove di svolgono
le scene; le luci non sono molto incisive, non creano tagli evidenti e sono
quasi sempre soffuse; gli abiti sempre monocromatici non danno sufficiente
risalto ai personaggi principali che si schiacciano sul coro e ne diventano
parte; mentre il coro a sua volta diventa parte della scenografia.
Un'occasione persa, che comunque piace al pubblico che applaude calorosamente
tutti gli interpreti.
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