| Nel centocinquantesimo anniversario della morte di Gioachino Rossini 
molti teatri si sono occupati dell'esecuzione di alcune opere del pesarese, 
dalle più alle meno conosciute. Il Teatro Coccia di Novara, in 
coproduzione con il Teatro Verdi di Pisa da cui proviene lo 
spettacolo, si è lanciato nella difficile avventura della messinscena di un 
titolo piuttosto arduo, vincendo la scommessa. Francesco Pasqualetti si distingue per una direzione 
compatta e ben amalgamata, da cui emerge un buon dialogo tra buca e 
palcoscenico, sia nei momenti solistici che nei pezzi d'assieme. Lo stile 
rossiniano è ben chiaro, mai matematico, sempre attento al fraseggiare degli 
interpreti che sono il punto di forza dell'esecuzione. Il solo piccolo neo è 
talvolta riscontrabile in un'eccessiva sonorità, anche se il bel suono dell'Orchestra 
della Toscana non lo rende fastidioso. Il Coro Ars Lyrica 
preparato da Marco Bargagna si mostra pienamente adeguato alla 
situazione, seppur la grande preghiera di terzo atto “Dal tuo stellato 
soglio” non sia certamente la parte più riuscita della rappresentazione. Natalia Gavrilan, vera protagonista dell'opera, porta in 
scena una Elcìa non particolarmente elegante, ma perfettamente riuscita 
nello sfoggio della tecnica di canto, di cui si riconosce chiaramente la maniera 
rossiniana. La vocalità brunita, con quei peculiari affondi che possono piacere 
o meno, la competenza professionale e solida, l'ottimo virtuosismo, nonché la 
capacità di variare le dinamiche, le permettono di riuscire sapientemente nelle 
insidie del ruolo Colbran, che trova il suo culmine in “Tormenti! Affanni! 
Smanie!” a conclusione del secondo atto. La affianca un Osiride altrettanto vittorioso. Il saper cantar 
Rossini di Ruzil Gatin proviene dall'Accademia di Pesaro e si 
sente. Vocalità luminosa e ben proiettata - piacevolissimo l'attacco di “Ah 
se puoi così lasciarmi” - acuti facili e svettanti, agilità ben sgranate, 
fraseggio eloquente. Ogni tanto si sente qualche piccola imprecisione e 
l'interpretazione scenica è da rivedere, ma sicuramente si tratta solo di 
lasciare tempo alla maturazione. Riesce anche il Faraone di Alessandro Abis, pure 
proveniente dalla scuola di Alberto Zedda, seppur la parte 
appare un po' troppo acuta per la sua vocalità. La tessitura lo mette talvolta 
in difficoltà, ma riesce ad aggirare il problema con grande stile, grazie alla 
conoscenza dei propri mezzi e di ciò che riesce ad affrontare. Presumibilmente 
sarebbe stato un ottimo Mosè Silvia Dalla Benetta, ospite regolare al Festival Rossini in 
Wildbad, veste i panni della regina Amaltea, ruolo ingrato poiché 
intriso di una lunghissima serie di recitativi, ma l'esperta cantante lo eleva a 
personaggio protagonista ed ottiene un meritato successo personale. La voce 
estesa, ben proiettata e dal timbro importante si impone nei pezzi d'assieme; il 
carattere e l'accento drammatico emergono nei recitativi e nel quartetto; ma è 
con “La pace mia smarrita” - mutuata dall'aria della regina Amira 
“Vorrei veder lo sposo” da Ciro in Babilonia - che mostra appieno le 
sue qualità armoniche, il saper legare i suoni, controllare il fiato e sgranare 
agilità con estrema precisione. Annunciato indisposto, Federico Sacchi è un Mosè 
convincente nell'interpretazione scenica, fatta di un personaggio severo e 
fortemente autorevole che pare uscito da un dipinto di Guido Reni, 
ma spesso opaco e in difficoltà nel canto. Più che adeguati i due tenori di contorno, l'espressivo Marco Mustaro 
nei panni di Mambre e il luminoso Matteo Roma in 
quelli di Aronne. Corretta ma poco lucente l'Amenofi di 
Ilaria Ribezzi. Lo spettacolo di Lorenzo Maria Mucci è costruito su di un 
modesto ma efficacissimo - quanto ecologico - impianto scenico a cura di 
Josè Yaque e Valentina Bressan realizzato da Officina 
Scart di Waste Recycling Gruppo Herambiente.  La parte fotografica, anche grazie ai bei costumi disegnati dagli stessi 
scenografi, è molto piacevole. Il lavoro di regia è invece un po' troppo 
semplicistico, pressoché fatto di ingressi, uscite e piazzamenti; mancano invece 
movimento e gestualità studiati sul gruppo - quel poco è lasciato ai singoli 
interpreti e si notano le differenze - oltre alle controscene che in certi 
momenti avrebbero incalzato la vicenda, invece sostenuta solo grazie a direttore 
e solisti.  Pure poco incisive le luci di Michele Della Mea, che sono 
sufficientemente efficaci viste nel loro insieme, ma talvolta lasciano i 
protagonisti al buio in proscenio, oppure restano per molto tempo fisse non 
andando a creare quella maggiore suggestione di cui invece un allestimento così 
sobrio avrebbe bisogno. |