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TURANDOT - La tensione eroica verso un'alba di Riconciliazione

manlio mirabile, 16/08/2012

In breve:
Come Ulisse non vinto dall'amore del padre, non dalla dolcezza del figlio non dall'amore di Penelope, nel suo ardore di divenir del mondo esperto e dei vizi umani e del valore, così il Principe Ignoto insegue la sua divina bellezza, la meraviglia, la Verità e la Riconciliazione sfidando la Morte. E come Ulisse ... volta nostra poppa nel mattino,/de' remi facemmo ali al folle volo,(Dante Inf. XXVI, 124-125)


 

 
 La messa in scena di TURANDOT nella torrida Verona del 4 agosto 2012 resterà ancora memorabile nel tempo per la splendida regia di Zeffirelli, storica ma come sempre affascinante, e per l'orchestrazione perfetta del giovane Mº Andrea Battistoni, al suo debutto nell'opera. Una regia solo in apparenza datata ma in realtà rigorosa nella separazione visiva dei due mondi: quello dorato e sgargiante della reggia, illuminata da luci calde e fastose, e il mondo del popolo di Pekino, succube, privo di identità, perennemente prostrato ai piedi della reggia, illuminato da tetre e livide luci. Un separazione resa ancora più eloquente dagli abiti sontuosi dell'imperatore, della Principessa Turandot e dei dignitari di corte, e dagli abiti dimessi, grigi, rattoppati del popolo. Una regia che oltre alla descrizione visiva dei due mondi ha dato risalto all'uno o all'altro con effetti scenici di grande attrazione e di una eloquenza maestosa. Dopo il siparietto delle Maschere, raccolto in uno spazio angusto come la loro visione e il loro spirito, il palcoscenico si apriva alla luminosità raggiante della reggia, perfetta nella originale, ricchissima architettura delle pagode cinesi.
 
A tanta maestria della regia si accompagnava meravigliosamente l'orchestrazione luminosa del giovane Battistoni, che ha saputo dirigere la eccellente orchestra dell'Arena con fermezza, con dominio assoluto degli esecutori, con sapienza rara in un giovane direttore e con una gestualità coinvolgente. Tutta intera la partitura sotto la sua direzione ha assunto la magistrale eloquenza di una recitazione di una poesia in musica. Ricchissima di colori, con i fiati e gli ottoni, gli archi e le percussioni, i piatti e i gong, i saxofoni contralti, l'orchestra ha saputo descrivere la poesia della notte lunare con le affascinanti melodie dei fiati e i brevi inserti dell'arpa, la tensione dell'attesa delle risposte agli enigmi con il tremolio degli archi, il terrore per i comandi di Turandot con note sincopate dei contrabbassi e dei timpani, l'esultanza del popolo per la vittoria del Principe con le trombe e tutta l'orchestra tesa allo spasimo in un momento di travolgente intensità.
Tuttavia pur in tanta dovizia di melodie e di stupendi accordi, vi sono stati momenti più opachi e momenti di più alta e immacolata poeticità. Il momento più opaco, anche se l'unico ad essere bissato, è stato quello forse più atteso: il Nessun dorma. La responsabilità unica di una delusione assai amara è da ascrivere al tenore Carlo Ventre. Il quale non sfiorato dalla tentazione di costruire un personaggio e di dare ad esso la compiutezza della musica e del libretto, per tutta l'opera è andato peregrinando con una voce non malvagia ma sempre uguale e sempre lontana dalla poesia e dal significato del testo. Nella romanza del III atto, il suo canto è stato simile al pennello di un pittore che con gli stessi colori dipinge il cielo, il mare, i prati e il deserto. Nessun dorma è il comando di Turandot e la voce che atterrisce Pekino, perché “Pena la morte..” il nome dell'Ignoto sia svelato prima del mattino. Ma nel canto di Calaf il senso del nessun dorma deve essere capovolto, perché quella che dal popolo è temuta come notte di morte sta per diventare una notte di speranza e un preludio d'amore. Sarà lui stesso infatti prima del mattino a rivelare il Mistero che racchiude, con un bacio che dissolverà ogni paura e scioglierà ogni gelo. Allora sarà l'alba di un universo mutato e di una esistenza nuova. In cielo non più la luna, “squallida, esangue, taciturna, lume funereo”, ma le stelle "che tremano d'amore e di speranza". Non più la limitatezza di un mondo circoscritto alla terra e al suo satellite roteante, ma l'infinito delle stelle in una emancipazione verso una spiritualità superiore e immutabile che racchiude un mondo nuovo dominato dall'amore e dalla riconciliazione. E' lui, figlio di Timur, il Principe ereditario dei Tartari che discende dalla stirpe che si rese colpevole dell'oltraggio alla dolce ava di Turandot. Dunque l'Amore per Turandot e lo sciogliersi di lei dalle iniquità di ricordi nefasti che le giungono attraverso un altro padre, l'Imperatore, sancirebbero la definitiva riconciliazione di due stirpi dopo secoli di sangue e vendette. E' l'ansia per l'avvento di questa transizione che dà senso e vigore alla invocazione alla notte di dileguare, alle stelle di tramontare, forze misteriose dell'universo senza il cui concorso ogni mutazione dell'esistenza diventa sterile velleità. E il celeberrimo “Vincerò” ripetuto tre volte è allo stesso tempo impegno e poi speranza e infine, nell'acuto, “superba certezza” che l'alba del nuovo mondo è ormai imminente. Una romanza così densa di simbolismi e di significati, esige colori e modulazioni della voce, pause e riprese d'impeto che nella modesta interpretazione di Ventre sono del tutto mancate.  
Momenti di alta e immacolata poeticità, sono state le tre arie di Amarilli Nizza (Liù): “Signora ascolta” del I atto, “Tanto amore segreto” e “Tu che di gel sei cinta” del III atto. Con esse, con la ricchezza di modulazioni di una voce rigorosamente aderente al significato della frase musicale, con una gestualità dalla eloquenza drammatica si è totalmente immersa nel personaggio, lo ha composto, lo ha rapportato alla sua cultura e lo ha colorato di virtù e abnegazione. In Liù ha come raccolto gli strazi di una umanità emarginata e sofferente, capace tuttavia di trasmettere un'idea superiore dell'esistenza e di creare nelle coscienze uno stato di risveglio da cui può forse prendere avvio la ricerca della strada maestra che è l'ottimismo della spiritualità. Con le sommità perlacee di quelle melodie, la interpretazione della Nizza ha raggiunto la potenza di una radiazione di un'arte rinnovata, grazie alla quale le forme del canto possono dare sbalzo scultoreo all'intreccio dei diversi stati psicologici che in ciascuno si evolvono con impetuosità senza respiro. Calibrato e penetrante come raggio di luce nel buio caravaggesco della scena, il si bemolle in pianissimo della sua sortita "perché un dì nella reggia m'hai sorriso". Assolutamente magistrale e antologica la tagliente frase dell'aria finale in cui con l'indice teso verso la principessa e lo sguardo lontano nell'eterno, preconizzava veemente, con voce possente quasi maledizione “l'amerai anche tu”. Una voce da cui esplodeva tutta l'infelicità dei tanti tormenti subiti, e che però appena dopo si affievoliva nella frase “chiudo stanca gli occhi” e dopo ancora si tramutava in sconfinata dolcezza nella frase “perché Egli vinca ancora”. Perdente nel distogliere Calaf da Turandot, la sua vita interamente proiettata sull'uomo amato ma ormai spoglia di ogni significato, Liù si arrende alla disperazione e si consegna alla Morte. Con la gestualità e con lo sfumare del canto, Amarilli Nizza elevava la morte di Liù così intensamente umana a una veglia mistica, che convocava gli spiriti alla riflessione della povertà di una ragione di quaggiù incapace di cogliere la verità e la maestà della ragione che sa guardare lassù. Oltre i confini della Morte. Il Mº Battistoni assecondava tanta bellezza di canto prima con i fiati, poi con gli archi e infine dopo l'ultimo gesto di Liù con l'esplosione dell'orchestra dominata dai timpani e dai piatti. Nel diffuso senso di sgomento e di attesa dei dignitari di corte e del popolo di Pekino, era appena percepito il lamento dell'ottavino, un lamento che allo spegnersi di ogni suono e al dilatarsi progressivo di un silenzio di meditazione, restava il solo, dolce e dolente, suono ad accompagnare le esequie di Liù e a spegnersi lui stesso su una nota sola e sempre più fievole. Quasi ultimo rantolo di Liù morente.
 
Meritevole di plausi Giovanna Casolla (Turandot) più per la ferma volontà di dar vita a un personaggio dalla vocalità estrema, che non per la resa scenica del difficilissima metamorfosi della Principessa. Personaggio nel quale la transizione da una statura psicologica ad un'altra è la più evidente e la più radicale. Nell'aria memorabile "In questa reggia...", emerge con tutta la irruenza del potere la ferma volontà di vendicare “sulle carovane di principi” la purezza, il grido, la morte atroce della sua ava. L'offesa per un antico trauma subito da una sua ava da un “uomo come te, straniero” ha mutato in lei i connotati di una femminilità resa distruttiva da una ferocia narcisistica. La sua identificazione con la luna, la vergine, intatta, candida luna, l'eterna peregrina testimone del tacito, infinito andare del tempo, è come la inesausta nostalgia del suo mondo verginale, offeso con la violenza e la morte, da vendicare con la violenza e la morte. Un mondo inaccessibile che la racchiude nella solitaria e sterile regione del suo orgoglio offeso. Tuttavia l'incontro con Liù, la sua profetica maledizione, “l'amerai anche tu”, il suo sacrificio per amore, la sua abnegazione, il suo amore altruistico fino alla totale rinuncia di se stessa, le dischiudono un universo di sentimenti, di virtù, che come brivido la trasformano: “E' l'alba, Turandot, tramonta”. Così la principessa di gelo si scioglie nel pianto, si sente vinta da un “fuoco terribile e soave” che avvolge tutta la sua sensualità, e le fa accogliere quella di Calaf “i tuoi seni di giglio tremano  sul mio petto”, “la mia gloria è il tuo amplesso”. Personaggio impervio costruito su una tessitura che esige una vocalità torrenziale di soprano lirico-spinto e drammatico, capace tuttavia di sfumature e declamati.
La Casolla ha risposto come forse meglio non poteva alla sua parte, ma le vibrazioni inquiete di Turandot dopo la disillusione del primo enigma sciolto, la tensione crescente dopo il secondo enigma e infine l'ostinazione nel rifiuto del verdetto della sacralità del giuramento, sono stati d'animo differenti che cantati senza duttilità e plasticità vocale hanno perduto tutta la loro potenza descrittiva. Infine del tutto opaca la fondamentale transizione della psicologia di Turandot Principessa di Morte, che si libera dall'idea perforante del tanatos, dalla crudeltà della vendetta per una violenza antica, per abbracciare l'eros, vinta dal un fuoco terribile ma soave che si sprigiona dal Principe.
Assai ben concepita è apparsa la scena delle Maschere all'inizio del II atto. In uno spazio angusto come la loro capacità di dare agli avvenimenti un corso diverso, preso coscienza della inutilità delle loro sollecitazioni presso il Principe a desistere dal folle gesto, si abbandonano grottescamente alla rievocazione piena di rimpianto del tempo passato, tranquillo e ordinato. Sono maschere perché la loro logica è la logica collettiva del conformismo, regolata dall'opportunismo e dal proprio adeguarsi agli eventi nel modo meno eroico di difesa della propria casetta con il suo laghetto blu tutto cinto di bambù. Sono anime tristi, prive di infamia e di lode, non ribelli al bene ma neppure fedeli, ignavi, espressione non vile né eroica di una composita umanità che non coglie valori ideali e che conduce una esistenza cieca e miserevole. A esse è affidata la parte antieroica e sdrammatizzante che rende ancor più titanico lo scontro tra la terribile Principessa e l'illusione funesta del Principe Ignoto. Per questo è stato teatralmente assai coinvolgente ed eloquente il dischiudersi della reggia sontuosa dell'Imperatore appena dopo lo sparire del loro piccolo spazio.
Non tutti allo stesso livello, ma tutti abbastanza convincenti con una varietà di gesti e di falsetti di voce, Leonardo López-Linares, (Ping), Paolo Antognetti (Pong) e Saverio Fiore (Pang) hanno allentato con un siparietto gradevole e per nulla tedioso la tensione tra i tre colpi di gong del Principe che chiudono il I atto e i tre terribili enigmi della Principessa nel II atto.
Assai pregevole Carlo Bosi (l‘Imperatore Altoum) autorevole uomo di stato e fermo genitore soprattutto nel perentorio ricordo alla figlia della sacralità del giuramento. Mentre il secondo padre, Timur, nella interpretazione di Giorgio Giuseppini, ha raggiunto una commovente intensità comunicativa negli inutili tentativi di dissuasione del figlio Calaf. Coinvolgente in una pietà senza fine nel dolente lamento sul corpo di Liù esamine e nella sconfinata dolcezza con cui l'accompagna verso la notte che non ha mattino. Squillante il Mandarino di Nicolò Ceriani nell'appello accorato e terribile della legge imposta da Turandot con cui ha inizio l'opera. Poco presente ma eloquente nell'intima suprema invocazione di Turandot, sua giudice assassina, il Principe di Persia di Cristiano Olivieri.
 
Splendido nelle sue diverse componenti di popolo di Pekino e dignitari di corte il coro, preparato da Armando Tasso, così come accattivante e fortemente descrittivo il colore impressionista del coro A.Li.Ve di voci bianche diretto da Paolo Facincani.      
 
Serata di grande spettacolo d'opera consegnata alla memoria ventura, soprattutto dalla direzione d'orchestra del meno che trentenne Battistoni e dalla regia del più che ottantenne Zeffirelli. Il pubblico, trascinato dall'entusiasmo più che attento ai tempi della recita, ha applaudito spesso fuori tempo impedendo di godere spezzoni di musica meravigliosa. Forse troppo eccitato ha richiesto al tenore un BIS non proprio meritato, ma ha saputo ben distinguere i valori degli interpreti nella carrellata finale degli applausi. Giustamente rivolti con copiosità, ovazioni e calpestio gioioso del pavimento, ad Amarilli Nizza, rivelazione assoluta, e alla veneranda Giovanna Casolla, già Turandot prima che il maestro Battistoni nascesse.         
 
 
 
 
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