Dopo alcuni anni di assenza, il Teatro Regio di Torino ripropone il capolavoro assoluto di Umberto Giordano, questa volta nell'allestimento di Lamberto Puggelli, che indubbiamente deve essere annoverato tra i migliori registi del teatro d'opera. Lo spettacolo, che ha più di un decennio, è ancora piacevolissimo e funzionalissimo, col solo neo di prevedere tutte le pause tra un anno e l'altro.
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Ascoltando l'esecuzione, è immediato un triplice confronto, il primo con la precedente produzione di Andrea Chénier sul palcoscenico torinese, gli altri con quelle avvenute al Carlo Felice di Genova nel medesimo lavoro di Puggelli. E purtroppo la resa complessiva di questa occasione non è la migliore di quelle appena citate.
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Molto probabilmente la gran parte della colpa è dovuta alla direzione di Renato Palumbo, che sembra guidare la sola orchestra, come se esistesse soltanto la buca. Non c'è alcunché di eccepibile nel gusto musicale, se non nella poca considerazione dei momenti più lirici, come i duetti dei due protagonisti, che avrebbero potuto essere resi con un miglior uso dei chiaroscuri, lasciando trasparire più pathos. Invece sembra essere totalmente assente il dialogo con gli interpreti e il suono è sempre forte, causando la copertura delle voci in molti punti ed obbligando i protagonisti a spingere per potersi far udire nelle pagine più importanti a loro dedicate.
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Marcelo Alvarez, nel vestire i panni del giovane poeta, resta uno dei migliori tenori di tutto il panorama lirico internazionale, nonché uno dei più generosi, ma deve chiaramente fare i conti con se stesso, con i periodi in cui la sua forma era sfolgorante e con la direzione che lo obbliga a dare sfogo a spinte ben poco naturali. La bellezza del suo fraseggio, la limpidezza del suo squillo, le toccanti mezze voci si odono bene in secondo atto, mentre il resto dell'opera è talvolta inficiato di opacità e mancanza di legato. Restano ottime l'espressività e l'intonazione, soprattutto considerando la difficoltà della parte e l'eccessivo peso orchestrale. Il pubblico lo accoglie con meritato calore.
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Maria José Siri, come già considerato in altre occasioni, è una cantante di buon livello. Punto e a capo. Manca dello spessore, dell'intensità, di quel vigore in più nell'uso del fraseggio, degli accenti e dei colori che hanno le grandi interpreti. Potrebbe tranquillamente restare ancorata ad un repertorio più lirico ottenendo risultati decisamente migliori e invece, nell'affrontare ruoli più drammatici, resta nella media. Nulla di più.
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Alberto Mastromarino è anch'egli cantante di buon livello, ma non all'altezza della situazione. In un teatro più provinciale e con una differente direzione sortirebbe certamente un buon effetto. Ma in questo caso si notano eccessivamente i limiti nello squillo, nella brillantezza del suono e nello spessore vocale ed interpretativo. Abbastanza buona è la resa della prima aria, soprattutto nella morbidezza della linea di canto; il resto è soddisfacente.
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Efficaci, nella media della resa dello spettacolo, la Bersi di Giovanna Lanza e la Madelon di Chiara Fracasso, anche se nel caso del mezzosoprano vicentino ci si sarebbe aspettati una maggiore espressività ed incisività nel fraseggio dell'arioso di terzo atto.
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Da risentire in un ruolo più corposo il basso Gabriele Sagona, che qui veste i panni di Roucher. Adeguati gli altri ruoli interpretati da Gianluca Floris, Matteo Peirone, Scott Johnson, Luca Casalin, Fabrizio Beggi, Franco Rizzo e Gheorghe Valentin Nistor, con qualche pecca per Federico Longhi.
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Buona la prova del Coro del Teatro Regio guidato da Claudio Fenoglio. |