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» Recensione dell'opera Turandot di G. Puccini - Teatro Goldoni di Livorno

Silvia Cosentino, 21/05/2009

In breve:
15/05/09 - Venerdì 15 maggio il Teatro Goldoni di Livorno ha proposto Turandot, ultimo atto incompiuto della produzione pucciniana. Allestita dalla Fondazione Teatro dell'Opera di Roma in sinergia con molte altre città italiane, tra cui lo stesso capoluogo toscano, la messinscena coglie con efficacia e scorrevolezza questa summa di complessa modernità, proiettando il pubblico in una colorata e giocosa dimensione magica.


Turandot - Scena degli enigmi

Malgrado l'introduzione del consulente musicale della Fondazione Goldoni Daniele Salvini, la scelta registica di Henning Brockhaus suscita stupore e disorientamento, nonché borbottii di disapprovazione da parte dei poco inclini ad accettare le novità interpretative, siano essere pertinenti o meno. Su uno sfondo di cielo stilizzato posto a semicerchio, si anima una passeggiata in stile anni Venti, con spiccato richiamo a quel lungomare versiliese ben conosciuto da Puccini: in costumi d'epoca (firmati da Stefania Tosi), coppie amoreggiano, amici s'incontrano e conversano, seduti ai tavolini o attratti dalle bancarelle di cianfrusaglie e dal carretto dei gelati. I movimenti, le azioni e le reazioni sono i veri protagonisti, dato che tutto si svolge in un inaspettato silenzio, in un'atmosfera che, seppur connotata, resta sospesa nel tempo e nello spazio. L'arrivo di un gruppo di artisti di strada stravolge questo quadretto, dando inizio all'incantesimo: un'inedita figura di clown (l'irresistibile Jean Méning), colui che muove i fili della vicenda, affida ai passanti maschere e variopinti abiti dal gusto orientale. Il buffo spiritello posiziona al centro del proscenio una vecchia valigia da cui estrae una partitura, elemento magico da cui la fiaba ha origine.

A questo punto, la musica di Puccini inizia a risuonare: con equilibro tra tecnica e passione, Oliver von Dohánnyi dirige l'Orchestra Filarmonica Veneta “G. F. Malipiero”, impegnata in un complesso organico di strumenti, tra cui il sassofono contralto, presente per la prima volta nella storia dell'opera lirica.

Fulcro dell'azione scenica diviene l'imponente struttura posta al centro del palco (scenografia di Ezio Toffolutti), un po' carrozzone di artisti ambulanti, un po' tenda da circo: come in una stampa orientale, al suo interno si palesano i misteri del sanguinario impero di Turandot. Se all'inizio della rappresentazione i movimenti del Coro del Teatro Sociale di Rovigo (diretto da Giorgio Mazzucato) erano naturali, correlati ad azioni di vita quotidiana, adesso diventano ampi, a tratti meccanici, descrittivi delle varie reazioni a ciò che accade; celati da maschere con differenti espressioni, i volti diventano quelli di fatate bambole di porcellana.

Turandot - Giovanna Casolla

Sotto la guida del clown, sempre presente a commentare mimicamente gli eventi, i personaggi principali prendono vita. Di forte impatto il soprano Giovanna Casolla, Turandot dal timbro corposo e sicuro, imponente e severa in gesti e sguardo. Il coreano Francesco Hong veste i panni di Calaf: forte di una lunga esperienza nel repertorio pucciniano e verdiano, il tenore è potente e disinvolto negli acuti; convincente la sua interpretazione, sebbene risulti poco espressiva dal punto di vista corporeo. Turandot - Francesco Hong

 

La voce melodiosa del soprano Rachele Stanisci, abile nelle sfumature di volume e nei vibrati, rende con canto e movimento la fragilità e lo struggente coraggio della schiava Liù: seppur personaggio marginale dal punto di vista narrativo, a lei è dedicata una delle pagine più importanti di Puccini, rendendola così una delle indimenticabili eroine da lui create. Spassosi e coinvolgenti nel loro fare clownesco, accentuato dai costumi colorati e dal trucco, sono Ping, Pong e Pang (rispettivamente il baritono Walter Franceschini, i tenori Max-René Cosotti e Cristiano Olivieri), equilibrati e in perfetta sintonia canora. Unica interpretazione sotto tono quella del basso Elia Todisco, un Timur poco delineato, senza spessore.

Si riscontra qualche stonatura, come l'elemento scenico della sedia sdraio all'inizio del terzo atto e la trasformazione dell'imperatore in sindaco nella conclusione, con tanto di fascia tricolore. Non del tutto convincenti le coreografie di Maria Cristina Madau, a tratti poco pertinenti (si pensi alla “danza hawaiana” evocata dai tre consiglieri) ed eseguite con incertezza.

Turandot - Jean Méning

La magia finisce con la morte di Liù, con le ultime note di Puccini: la partitura, che mai aveva abbandonato il proscenio, viene riposta; ognuno recupera i propri abiti, il coro non partecipa all'azione, limitandosi a osservare. Per quanto efficace, l'allestimento non riesce a rendere indolore l'assenza del compositore: risultato di un lavoro su appunti autografi del Maestro, il finale di Franco Alfano è lento, incerto come se il meccanismo si fosse inceppato. A fronte della potenza innovativa del primo atto, la tensione si smorza, le idee melodiche sono terminate, facendo risultare inevitabilmente banale la conclusione stilistica e narrativa di questo capolavoro. La morte della dolce Liù non costituisce solo l'epilogo della produzione pucciniana, ma soprattutto il capitolo finale del genere melodramma, quell'inscindibile connubio musica-teatro che trova nel Maestro lucchese l'ultimo, forse il più grande, geniale esponente.


Turandot - Scena

 

 
 
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